LA TRATTORIA AL PERO
Il Pero prende il nome da un albero che era cresciuto all'angolo tra via Dante e via Santa Lucia; la pianta con il tempo e l'inquinamento si era disseccata, uccisa come le lucciole di Pasolini, un brutto presagio a cui si era aggiunto l'esaurimento della sorgiva che cantava all'ingresso, un filo di acqua freschissima.
I Salvadego, appassionati di pugilato, erano entrati in azienda che avevano ancora i calzoni corti, dirigeva lo zio Valentino. La cucina di Gioacchino Bragato, cuoco e pittore, era potente (fagioli con le cotiche, zuppa di verze, bollito misto in una marcia trionfale di salse, piedino di maiale), roba da stomaci forti, da gente muscolare, eppure al Pero si sedevano professori universitari, intellettuali, artisti e ricevevano un piatto di minestra anche barboni, gente sola e disperata come Ernesto o Mussa, la mascotte del calcio Padova. Il Pero è stato un vero e proprio «frullatore sociale» con la passione dell'accoglienza e della solidarietà. Certo ne erano esclusi, anzi autoesclusi i «parvenu», quei «signori e signore» che mangiavano e bevevano con il mignolo alzato. Nel libro di Cesare Marchi, «Quando eravamo povera gente», è citata una cena al Pero con Concetto Marchesi.
Il locale è stato «foyer» di artisti, refettorio e salotto di pittori negli anni ruggenti del Pozzetto. Lo frequentavano Tono Zancanaro, Gianni Longinotti, Galeazzo Viganò. Colpisce soprattutto l'attrazione esercitata dal locale sugli attori che facevano spettacolo al Verdi: una sera Macario portò a cena tutto il corpo di ballo, belle ragazze stivate in poco spazio, tutte con la ridarella. Gino Bramieri ordinava il menù per telefono.
Bragato ricorda di aver preparato la tavola anche a Dario Fo e Franca Rame, alla Proclemer, a Tino Carraro, a Giulietta Masina. Vi ha fatto sosta per un piatto di lasagne anche Mike Bongiorno. Il Pero era quasi il simbolo di quella Padova «città materna» raccontata da Diego Valeri. Ora è scomparso, sbarrato, chiuso, svuotato, morto, ed è giusto così perché oggi il Pero sarebbe stato il simbolo di nulla, di una Padova che non c'è più.
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